CLARA, 27





CLARA

Sono Clara, ho 27 anni, la mia vulvodinia ne ha all’incirca sei ma è rimasta oscurata al mondo per i primi cinque,

vedendosi poi finalmente, anagraficamente concretizzata nero su bianco, pronunciata ad alta voce da qualcuno

che non fossi io, attribuita a reali manifestazioni e non ad isterie per la prima volta solamente un anno fa. Ed

eccola là che fa da padrona, da direi, e da protagonista da un po’ meno e talvolta da silente compagna in una

vita che era ed è tutt’ora la mia. 

Mi piacerebbe descrivervela la mia vulvodinia, se lo merita. 

La mia vulvodinia ha il volto tumefatto, scavato, stanco, come i fori sull’asciugamano anche lei si è usurata

assieme a me a forza di continui e innumerevoli “non c’è nulla” , “vedrai che passa” , “magari sei solo un po’

stressata”. Questa invalidazione e l’invalidazione in generale, porta più o meno lentamente al crearsi di voragini

emotive che si fanno strada nei meandri di ciò che pensiamo di essere, di ciò che pensiamo di meritare. Queste

voragini poi si moltiplicano silenziosamente deteriorando la microarchitettura di ciò che negli anni si è tanto

faticato a costruire. La rappresentazione propria che si possiede, il sé, la persona che si immagina di essere con

una conseguente diminuzione della sua resistenza ed esistenza. E da forte che eri o credevi di essere cominci a

sentirti fragile, spezzata, rotta. Ebbene quelle cavità oramai statiche e definite scontrandosi con una realtà che ha

negli occhi un’idea di donna chiaramente difforme a ciò che si avverte di essere, portano alla convinzione di non

valere, di essere in difetto, di fallire nel tentativo zoppicante di prestarsi ad un’immagine che obiettivamente non

combacia. La mia emozione in questo frangente ha preso vita e movimento dal lato stesso della scrittura. Ho inciso parole,

nello specifico due e proprio queste due perché scrivendole ho avuto modo di attribuire concretezza a ciò che

sento. Qualcuno potrebbe pensare, e io stessa per un istante l’ho fatto, che un verde speranza sarebbe stato

metaforicamente più appropriato. Ma il rosso, il rosso è il colore della rivoluzione. È forza, è determinazione, è

lotta, è desiderio di essere visti, percepiti, ascoltati. Il mio rosso, il rosso con il quale ho impresso queste due

parole sulla mia stoffa del dolore, il mio rosso è speranza. Perché sebbene io oramai mi ci sia abituata e in un

certo senso affezionata a questa vulvodinia che mi segue come un'ombra giorno e notte, sebbene faccia parte di

me ma non mi totalizzi, io voglio credere che in un futuro più o meno prossimo la potrò salutare. Sarà forse un

arrivederci, sarà mai un addio? Non importa. Basterà che mi lasci il tempo per ricordare chi ero, chi sono e chi

vorrò essere, con o senza di lei. 

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